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Un nuovo inizio

  • Immagine del redattore: Luca Bartolacelli
    Luca Bartolacelli
  • 25 ago 2020
  • Tempo di lettura: 6 min


Racconto scritto per il concorso #inizio della Libreria Friuli, Udine.



Gli scatoloni ammassati lungo l'angusta parete del corridoio, in lotta con la gravità, ricordavano un moderno totem opera di un confuso artista contemporaneo.

In una casa di campagna, bastava allontanarsi per qualche giorno e l'oblio prendeva il sopravvento. Piccole ragnatele comparivano agli angoli delle pareti rivendicando il loro diritto di esistere. La polvere danzava nell'aria come stregata da una musica invisibile e si depositava sulle cose disegnando infinite vie lattee, tra soprammobili dimenticati dal tempo e libri che avevano ancora buone cose da raccontare.

L'aria era pesante e viziata. L'odore di muffa cominciava a diventare insistente e in alcuni angoli delle stanze le macchioline nere, avevano invaso le opache pareti bianche. Sfogliando gli strati di quella pittura si animavano le vicende di questa famiglia negli anni. Un album calcificato nel tempo. Urla, risate, graffi e ricordi della mia infanzia prima, del mio essere adulto ora. Muri come testimoni oculari di vita, sogni e battaglie.

Sprofondai nella vecchia poltrona di pelle del salotto che era stata di mio padre, dai tempi in cui la mia memoria aveva iniziato a formarsi.

In mano tenevo un piattino azzurro, accuratamente chiuso da uno strato di carta stagnola. Il biglietto che lo copriva recitava il mio nome in uno stampatello incerto e sbavato dal color rosa pastello.

Lo aprii con tutta la delicatezza e l'amore che il messaggio richiedeva.


“PER IL TUO NUOVO INIZIO. LA TORTA DI MELE DELLA MAMMA. AGNESE”


Un sorriso prese possesso delle mie labbra dopo tanti giorni di indifferenza e mascelle serrate. Non riuscivo a piangere, non riuscivo a soffrire. Il momento delicato lo avrebbe richiesto.

Agnese era la figlia dei miei vicini di casa. Una gentile coppia di stranieri che aveva comprato e ristrutturato il vecchio mulino in fondo alla polverosa via di ghiaia che conduceva qui. Erano sempre educati e cortesi con noi. Amavano e ringraziavano questo piccolo paese collinare italiano che aveva regalato loro una nuova possibilità e un futuro per la loro graziosa figlia. Una volta chiesi al padre perché avesse scelto un nome così italiano per la loro piccola. Mi rispose che le radici possono avvelenarsi e morire e i frutti nascere in nuove terre di speranza. Credo si riferisse alla loro fuga. Guardando quell'uomo provavi contemporaneamente disagio e compassione. La guerra aveva lasciato solo stelle nere in fondo ai suoi occhi.

Scartai la mia torta e inizia a mangiare lentamente quel morbido impasto di zucchero, mele e amore.

Parlavo di radici si. Le mie le avevo ancora sotto i piedi. Quarant'anni di vita e mai avevo abbandonato questo posto. Ci avevo provato più volte però. Dopo la scuola, dopo quello stage all'estero con l'università. Ogni volta qualcosa si intrometteva e mi riportava qui. Come se queste mura avessero degli elastici e dei buoni motivi per farmi tornare indietro. La proposta di assunzione nella fabbrica di ceramiche come responsabile vendite, la ristrutturazione del vecchio capanno in fondo al cortile, la scomparsa di mia madre.

Per un figlio unico è difficile vedere il proprio padre anziano rimanere solo. Alle prese con una lavatrice mai toccata, un forno a microonde che per lui poteva essere uno space shuttle e la solitudine di cene silenziose.

Questa volta però era diverso. Il destino avevo giocato la sua carta migliore e i miei elastici avevano finalmente ceduto.

Mario, mio padre, si era definitivamente arreso a questa nuova malattia. Sembra impossibile come un piccolo batterio venuto da lontano possa avere la meglio su un uomo così forte. Imponenti braccia muscolose, carattere arcigno e pelle spessa forgiata da una vita di sole e lavoro della terra. Credo non si fosse mai perso un'alba da quando aveva dieci anni.

Ricordo che quando ero piccolino e mi alzavo per andare a scuola, amava rientrare in casa e fare colazione insieme a me. Io latte e biscotti, lui un grosso panino con la mortadella e un bicchiere di vino rosso. A quell'epoca mi sembrava strana la colazione dei grandi. Solo più tardi capii che era normale per un grosso uomo come lui, mangiare così tanto a quell'ora avendo nelle gambe già quattro ore di lavoro nei campi.

Mi guardai intorno cercando un buon motivo per non andarmene da questo posto. Non lo trovai. Gli oggetti e i luoghi acquisiscono valore solo se legati alle persone. I ricordi svuotati da esse diventano solo nostalgia e una scusa per andare a letto triste con l'alito di gin.

Dovevo iniziare a liberare armadi e cassetti per riempire quelle scatole col mio passato. Avrebbero trovato casa nell'enorme cantina del mio nuovo appartamento in centro. Pomeriggio avrei incontrato l'agente immobiliare per firmare il contratto di affitto.

Ero un po' preoccupato di perdere l'intensità di tutto quel verde, il profumo del grano, l'assordante silenzio. Il mio corpo esigeva però un nuovo inizio. Conoscenze, avventure, magari una ragazza. Qualsiasi cosa avesse un vestito fresco da indossare.

Stavo raccogliendo soddisfatto le ultime briciole di torta dal piattino quando, con la coda dell'occhio, vidi un un gatto che mi fissava dalla porta finestra del salotto. Non mi ero accorto di lui, poteva benissimo essere lì da molti minuti.

“E tu chi sei?”

Feci un ampio gesto con le mani con la speranza di vederlo fuggire via, ma niente. Continuava a fissarmi imperterrito.

Non avevo più voluto animali dopo la morte del mio amato cane quasi venti anni fa. Piansi per una settimana sulla sua tomba in fondo al campo. Mio padre non disse niente. Aspettò la fine delle mie lacrime in silenzio. Sapeva che Sam sarebbe stato il mio ultimo animale, e rispettò la mia scelta. Era un uomo di poche parole ma enormi significati. Conosceva il dolore e la sua necessita di tempo e consapevolezza per essere accettato.

Torniamo al gatto.

Mi alzai rumorosamente dalla poltrona e feci uno scatto verso il vetro battendo il pugno e facendomi sentire. Il mio nuovo ospite continuò a fissarmi e iniziò a miagolare insistentemente.

Dovevo mandarlo via. In settimana erano in programma ben tre visite di potenziali acquirenti del casale e non avevo intenzione di accoglierli con uccellini morti sullo zerbino ed escrementi freschi sul prato.

Aprii la porta con l'intento di usare la forza per quello sfratto coercitivo, ma il micio sfoderò le unghie e rivendicò i suoi diritti. Passai allora alle buone maniere. Mi inginocchiai e tesi una mano in segno di tregua. Il gatto sembrò gradire e con diffidenza strofinò il muso contro le mie dita.

Notai che era visibilmente magro e provato e alcune macchie di sangue coagulato risaltavano sulle zampette bianche come la neve. Il resto del pelo era nero e lucido come la notte.

Imprecai nella mia testa per quello che stavo facendo, mentre mi dirigevo verso la cucina. Tornai con una scodella di latte e una scatoletta di tonno rovesciata su un piattino.

Lo stranierò gradì e con calma e circospezione finì entrambe le pietanze.

Il mio nuovo contratto di affitto proibiva tassativamente l'introduzione di animali in appartamento e quindi fu un'idea che dovetti scartare immediatamente dalla testa.

Stavo già pensando se provare a portarlo ai vicini o mettere un annuncio su Facebook, quando iniziò a miagolare a un volume altissimo.

Se aveva ancora fame ero messo male. Il frigo ormai era un deserto e quella scatoletta era l'ultima provvista che avevo in dispensa.

Improvvisamente corse in fondo al giardino. Pensai di essermela cavata così, ma il piccolo gatto Silvestro continuava a chiamarmi, fissandomi con insistenza. Voleva essere seguito.

Incuriosito e preoccupato attraversai il cortile dietro quella cometa di pelo e pulci. Puntava dritto al nuovo capanno. Lo vidi strisciare sotto il portone in ferro battuto che proprio mio padre aveva saldato alla buona, ma che con orgoglio fissò un giorno all'ingresso della struttura. Entrai.

Mi ci vollero circa trenta secondi per abituare le pupille alla penombra di quell'alta stanza piena di attrezzi. Chiamai Silvestro col classico schiocco di baci che piace ai felini.

All'inizio non ebbi risposta, ma poi dei piccoli rumori mi richiamarono da sotto il bancone. Provai ad inginocchiarmi, ma in quel punto l'oscurità era troppo profonda per permettermi di vedere e capire.

Rovistai tra gli scaffali fino a trovare una torcia che stentò ad accendersi per qualche secondo ma poi generò il suo fascio di luce. Mi distesi allora per terra e lo indirizzai nel punto di origine di quei versi.

Accovacciato dentro una vecchia tuta blu da lavoro di mio padre, Silvestro mi confessò due cose.

La prima e inequivocabile era il suo sesso, femmina.

La seconda, non meno importante erano i suoi tre piccoli che stava allattando.

Con estrema cura trascinai quel fagotto e il suo prezioso carico verso di me.

I piccolini che succhiavano energicamente il latte dalla loro mamma provata erano solo due. Il terzo non ce l'aveva fatta. Il suo pelo tigrato nascondeva un corpicino fragile e immobile. Non aveva retto le prime difficoltà di abitare questo pianeta.

E proprio in quel momento arrivò al mio cervello come un treno, il profumo di dopobarba proveniente dalla tuta di papà. I miei occhi, già umidi e incantati dal miracolo della vita, esplosero in un pianto caldo e curativo di lacrime venute da molto lontano.

Dentro di me si ruppe la sottile lastra di vetro che avevo eretto tra me e il mondo e crollai singhiozzando sul pavimento di cemento, tra polvere, segatura e ricordi.

Fu li che accolsi il modo pittoresco che aveva scelto mio padre di dirmi addio.

Fu li che gli elastici tornarono a risucchiarmi al mio posto.

Fu li che cancellai l'immagine di lui intubato in una camera di ospedale e la sostituii con il sorriso delle nostre colazioni insieme.

Fu li che capii che non me ne sarei andato da quel posto neanche questa volta.

Fu li che tre piccoli animali, un umano e quattro mura divennero famiglia.

La morte e la vita.

Un nuovo inizio.


L. B.

 
 
 

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