Quello che non vediamo
- Luca Bartolacelli

- 17 giu 2020
- Tempo di lettura: 2 min

E se non vedere fosse un privilegio?
Quali sarebbero realmente le nostre scelte se ignorassimo quello scaltro alunno sempre con la mano alzata chiamato Vista? Sapremo montare la nostra vita senza il libretto di istruzioni che ogni giorno compila lo sguardo?
VEDERE è un verbo indissolubilmente collegato ai nostri occhi. È una risposta cruda e diretta a quello che incontriamo nella vita. Pochissimo spazio ad interpretazioni o bugie. Ci si può appellare a uno scarso numero di diottrie, a un’estrema interpretazione dei gusti, a un daltonismo ereditario, ma una cosa che non puoi cambiare è la realtà.
Una fotografia fissa un’istante su pellicola per l’eternità. In quello scatto del diploma delle superiori è inconfutabile che sorridevi, che la tua pettinatura era ridicola e che i tuoi compagni di classe erano vestiti dannatamente male. Ma dietro quella superficie patinata e ingiallite dal tempo chi può realmente capire se eravamo felici?
Qui entra in gioco la memoria, quel grande archivio polveroso che ci trasciniamo da quando eravamo bimbi. E qui capiamo che più ci spostiamo indietro con gli anni e più le immagini lasciano il posto alle sensazioni, i gusti, gli odori. Gli occhi non aprono più i cassetti al piano interrato della nostra esistenza. Se vuoi scendere le scale della tua giovinezza, un cartello ti ammonirà:
“Lasciare il verbo VEDERE nell’apposito armadietto, bendare gli occhi e iniziare a SENTIRE. Grazie"
In quanti modi possiamo sentire?
Possiamo sentire col tatto. Le piccolissime imperfezioni della pelle della mano della persona che amiamo, il soffice pelo del gattino dei vicini che mi saluta al rientro dal lavoro, gli aculei rigidi di quell’impaurito riccio trovato nel giardino dell’asilo.
Possiamo sentire col gusto. L’aspro gusto del vino assaggiato di nascosto insieme a mio nonno in cantina a 5 anni, il terribile sapore di quella sigaretta rubata a mio padre e fumata tossendo in piazza con gli amici, il gusto di ciliegia sulle labbra di quella bionda ragazza in quello che sarebbe stato il mio primo bacio.
Possiamo sentire col l’olfatto. Il dolce aroma della polenta bollente entrando a casa di mia nonna, l’acre odore di fumo della stufa che si spegneva quando la legna era umida, il profumo di lavanda di quella ragazza in corriera che seduta di fronte a me sorridendo non mi avrebbe mai detto il suo nome.
Possiamo sentire con l’udito. Le urla di mia mamma che cercava di chiamarmi invano a cena, il primo accordo di chitarra di Ligabue in apertura del concerto del Campovolo, il pianto di mio fratello nella microscopica culla dell’ospedale di Udine.
Possiamo sentire col cuore. La paura, la rabbia, l’emozione e tutto l’amore di cui siamo capaci.
Potrei andare avanti all’infinito, bendato, girando tra le stanze del mio passato. I ricordi si aprono a cascata, belli e brutti, meravigliosi e dolorosi, ingombranti e importanti. Con il passato funziona a meraviglia il verbo SENTIRE.
Credo che se fossimo più coraggiosi di affrontare anche il presente e il futuro con gli occhi bendati, questo mondo freddo e digitale che stiamo vivendo lascerebbe più spazio al calore e al nostro modo di sentire. Coi sensi. E con il cuore.
Si, non vedere può essere un privilegio.
L. B.





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